Censis: tre nuove società. Torna la lotta di classe

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Censis: tre nuove società. Torna la lotta di classe

Luglio 2015. La crisi con le sue dinamiche regressive ha reso più stringenti talune patologie sociali: la precarizzazione del lavoro, la povertà e le disuguaglianze sociali. Fenomenologie reali, significative che alimentano però letture statiche della realtà sociale come quella della terza società degli esclusi o del ritorno della lotta di classe.
Invece, per capire come promuovere e accompagnare nuovo sviluppo l’attenzione va messa sui processi per intercettare eventuali nuovi protagonismi di massa, collettivi, in grado di generare una dinamica di crescita, in linea con la logica dello sviluppo italiano che dal miracolo economico alla recente reazione di sopravvivenza alla crisi sempre è stato alimentato da energie collettive interne al sistema.
Se negli anni recenti la crisi ha generato paura e rattrappimento con effetti non neutrali sulle energie collettive, tuttavia i processi consentono di cogliere l’altra faccia della fenomenologia sociale, quella che racconta di una dinamica che va oltre la regressione e che già oggi parla e pratica sviluppo.
I nuovi protagonisti della ripresa sono già qui e vanno da un ceto medio diverso dal recente passato, sobrio e propenso alla responsabilità individuale, ad una mai spenta imprenditorialità di massa che conquista nuove frontiere, per crescere in modo più stabile o semplicemente utilizzando con astuzia soglie più basse di accesso ai processi di creazione del reddito.
La nuova composizione sociale non può essere letta solo come figlia dei processi regressivi, dalle nuove povertà e disuguaglianze alla precarietà concentrata tra giovani e meno istruiti; essa si alimenta delle dinamiche virtuose di nuove imprese, di competenze acquisite magari all’estero e rigiocate nei contesti locali o della capacità inedita di utilizzare le opportunità delle nuove tecnologie.
E’ importante dare visibilità ad una composizione sociale in evoluzione, complessa, capace di coltivare aspettative di crescita con percorsi ascensionali, magari ancora allo stato iniziale, ma già largamente oltre le logiche di puro attendismo.
 
La terza società degli esclusi
Tre sarebbero le società che coesistono nella composizione sociale attuale:
. la prima società delle garanzie, in primis nel lavoro con l’articolo 18;
. la seconda società del rischio fatta di commercianti e autonomi che operano su mercati di prodotti e servizi,
. e la terza società di persone, in particolare donne e giovani, che lavorano di fatto in nero, nel sommerso con poche o alcuna tutela. I membri della terza società vorrebbero avere lavoro regolare e relative tutele, ma semplicemente non vi hanno accesso.
Nelle tre società si verifica una tripartizione quasi eguale del totale dei lavoratori, con la collocazione nella terza società di disoccupati, lavoratori in nero, scoraggiati, oltre che precari.
La ratio di questa collocazione sociale non è tanto l’essere poveri (anche se è una condizione più diffusa tra i membri della terza società), ma l’essere esclusi, tenuto fuori dai circuiti delle prime due società e, in particolare, dalle tutele della prima società e dalle potenzialità di reddito di molti degli esponenti della seconda società. Politicamente questa società tende a non avere rappresentanza, incontra qualche sostegno estemporaneo a livello culturale e politico, ma non genera propria rappresentanza sociopolitica o istituzionale.
I percorsi lavorativi e di vita dei membri di questa società sono condizionati dal basso o nullo grado di tutele di cui dispongono, che finiscono per condizionare anche livelli di reddito e soprattutto certezze del futuro.
In questa visione quindi l’articolazione sociale è tutta giocata intorno al nodo delle tutele e dei rischi che definisce la collocazione delle persone. Quindi, il nostro è un paese con dentro tre società dai vissuti diversi, dove la terza società è di fatto quella degli esclusi, invisibili politicamente, privi di prospettive reali di crescita economica e deboli socialmente.
 
E tornò la lotta di classe
In questa ottica, oggi sarebbe sul tappeto un problema politico di ricomposizione dei frammenti della nuova classe operaia diffusa, fermo restando le linee di demarcazione sociale tradizionali, magari un po’ appannate dalla nuova composizione sociale.
E’ una lettura che ha trovato rinnovato vigore in alcuni innegabili esiti della crisi, come l’ampliamento delle disuguaglianze, la caduta dei redditi più bassi e la destrutturazione di tutele che sino a non molto tempo fa davano forza a lavoratori che si sentivano al riparo dai rischi di disagio sociale.
La crisi avrebbe azzerato le lunghe derive della cetomedizzazione; pertanto, la complessità dei rapporti di proprietà e la patrimonializzazione di massa, gli esiti della società dei consumi ed il dominio della soggettività in ogni ambito avrebbero prodotto un appannamento temporaneo della divisione in classi, ma oggi con la crisi esce di scena definitivamente l’idea di una identità sociale fuori e oltre i codici classisti. Se ciò che depotenziava la società classista era la permeabilità delle classi, la sensazione e l’esperienza che individualmente e/o come famiglia si potesse ascendere a livelli sociali ed economici più elevati, l’attuale crisi cristallizza la mancanza di mobilità sociale e congela l’idea di sentieri praticabili di crescita individuale diffusa nella società.
Così come nel passato i processi socioeconomici fondati sulla soggettività avevano fluidificato la composizione sociale, rotto gli argini tra le classi, spinto in alto le persone facendo contare socialmente di più gli stili di vita e i modelli di consumi come aggregatori sociali piuttosto che la collocazione rispetto al lavoro o alla proprietà sociale dei mezzi di produzione, nel presente la crisi ha riportato ogni persona alla sua particolare collocazione nella divisione sociale del lavoro e nei meccanismi di produzione e distribuzione di reddito e ricchezza.
Pertanto in questa visione si ritiene che se non si tratta più di lotta di classe tra operai e capitalisti nella visione classica, sempre di lotta di classe però si tratterebbe…
 
Sostiene il Censis
La società italiana è indistinta perché non descrivibile con forme e figure delineate e significative, ed è sfuggente perché al suo interno si vaga senza radicamenti; quelle citate sono le due caratteristiche costitutive della società che affiancano la caratteristica primaria già indicata che consiste nel fatto che è una società liquida che ha eroso le giunture sistemiche della vita collettiva.
Non a caso le progettualità complessive di tipo sistemico sono rimaste inagite, progettualità di pura carta. In tale contesto non poteva non prevalere una vocazione antica e profondamente radicata nei comportamenti sociali diffusi: vivere in orizzontale, aggregarsi in mondi chiusi in se stessi, privi di capacità di comunicazione in verticale.
Sono mondi che non riescono a generare confronto esterno, e per questo vivono di se stessi contenendo la potenza, tanto da diventare incapaci di generare effetti oltre il proprio specifico contesto.
 
La stabilizzazione della precarietà
Il rapporto con il lavoro è al cuore dei processi regressivi che negli anni della crisi hanno toccato il proprio massimo: c’è stata distruzione intensa di lavoro e crescente differenziazione della occupabilità con debolezza aggiuntiva di taluni gruppi sociali, come le persone con basso titolo di studio e i giovani, più toccati dalla paradossale stabilizzazione della precarietà.
La distruzione di lavoro è evidente: focalizzando l’attenzione sugli anni della crisi emerge che sono stati distrutti per il totale della popolazione con almeno 15 anni 615 mila posti di lavoro pari a -2,7% del totale occupazione. Dai dati emerge che le persone con contratto a tempo determinato espulsi dall’occupazione in un anno per licenziamento o per fine contratto sono state nel 2013 il 31,2% del totale degli espulsi dall’occupazione: quindi un gruppo di lavoratori che costituisce poco più di un decimo degli occupati ha contribuito per quasi un terzo alle legioni dei licenziati e messi a riposo in un anno. Inoltre, la loro quota sul totale degli espulsi dal mondo del lavoro in un anno è cresciuta di 7,5 punti percentuali tra 2007 e 2013.
Va detto poi che la crescita dell’occupazione temporanea è il dato più significativo del mercato del lavoro italiano: infatti tra gli occupati assunti nell’anno i temporanei erano il 51,3% nel 2007 e sono diventati il 60,2% nel 2013 con una differenza percentuale positiva di +8,9%.
 

 

 
Il nuovo ceto medio, sobrio e responsabile
La sopravvivenza alla crisi racconta di un ceto medio profondamente cambiato, ma ancora in grado di essere protagonista. Sul piano della attrattività sociale, dai dati emerge che in modo trasversale a classi di età, livelli di reddito, professione svolta, prevale la percezione di se stessi come membri del ceto medio. Sobrietà nei consumi e responsabilità individuale piuttosto che compulsion consumista e resa ad un destino impiegatizio: questi i cardini sociovaloriali che aiutano a descrivere la nuova composizione sociale e il senso di se del nuovo ceto medio. La sobrietà è stata fatta di ridefinizione di carrelli della spesa, dispense, armadi con un radicale ripensamento dei meccanismi di gestione del reddito e della spesa; inoltre, i dati di una indagine del Censis mostrano che pensando al futuro prossimo e ipotizzando di avere più soldi il 52% degli italiani metterebbe i soldi da parte su conto corrente o libretto, il 27,6% aumenterebbe i propri consumi e l’11% investirebbe i soldi in Bot e altri titoli a reddito fisso.
Questa articolazione di comportamenti è trasversale ai gruppi sociali, professionali e ai territori ed è maggioritaria tra coloro che si sentono oggi ceto medio.
Nella cultura e nella pratica collettiva quindi prevale la spinta sul risparmio piuttosto che la corsa ai consumi; sobrietà è la parola chiave che non vuol dire poverismo, ma un uso oculato di risorse potenzialmente disponibili per usi alternativi.
E la sobrietà contribuisce a rendere gli stili di vita, intesi come il rapport con i consumi, le modalità di fruizione del tempo libero, le tipologie di disagio che si vivono come il più formidabile collante sociale.

 

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