Carne alternativa: tra innovazione, business e limiti normativi

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Negli ultimi anni, le alternative alla carne tradizionale sono diventate uno dei temi più dibattuti nel mondo del food-tech. La carne coltivata in vitro e le varianti plant-based, infatti, rappresentano oggi un settore economico in rapida espansione, con numeri da capogiro e implicazioni profonde su salute, sostenibilità e consumi. Approfondiamo l’argomento includendo gli scenari europei e italiani nella fattispecie, ma anche quello statunitense.

Secondo l’analisi di Boston Consulting Group e Blue Horizon, il mercato globale delle proteine alternative potrebbe valere fino a 290 miliardi di dollari entro il 2035. E se da un lato ci sono Paesi che guidano l’innovazione, come gli Stati Uniti, dall’altro troviamo realtà più caute e normative rigide come, per esempio, quella italiana.

In tutto ciò, esiste una rete di aziende che sta mettendo in gioco risorse e intelletto riscrivendo il concetto stesso di carne. È bene ricordare, infatti che per carne plant-based, ad esempio, non si intende un surrogato bensì un alimento che rispecchi in modo estremamente fedele (colore, odore, consistenza, succhi, apporto nutritivo) la carne di origine animale, pur contenendo solo ingredienti vegetali.

Stati Uniti: il cuore pulsante dell’innovazione (ma non senza problemi)

Negli Stati Uniti, la carne alternativa ha trovato terreno fertile. Non solo per la disponibilità di capitali e infrastrutture, ma soprattutto per l’apertura culturale verso l’innovazione alimentare. Marchi come Beyond Meat e Impossible Foods, ad esempio, sono diventati protagonisti di una rivoluzione a base vegetale, vendendo milioni di burger e salsicce nei supermercati e nelle catene fast-food.

Beyond Meat, in particolare, ha conosciuto una crescita impressionante sin dal suo debutto in borsa nel 2019. Ha stretto una partnership con giganti come McDonald’s (ora in fase di revisione), KFC e PepsiCo, diventando un’icona globale del cibo sostenibile. Tuttavia, dietro il successo di facciata, si nascondono anche criticità importanti: nel 2023, l’azienda ha registrato un calo dell’8.7% nelle vendite e risultati negativi in termini di margine, con perdite nette in aumento.

Uno dei problemi principali è il prezzo: i prodotti plant-based costano in media il 77% in più rispetto alla carne tradizionale, rendendo difficile l’ingresso di tali referenze nelle diete dei consumatori. C’è poi un forte scetticismo da parte di alcuni clienti i quali, spesso, preferiscono non sostituire la carne con prodotti a base vegetale o che vengono creati in laboratorio.

In merito a quest’ultimo punto, sebbene il governo federale abbia dato il via libera alla carne coltivata in laboratorio, alcuni stati americani come Florida e Alabama hanno approvato leggi che ne vietano la produzione e la vendita. Una contraddizione evidente che riflette il clima polarizzato su questi temi. Nonostante ciò, le startup continuano ad innovare: aziende come Memphis Meats (ora Believer Meats), Upside Foods e Aleph Farms stanno abbattendo i costi di produzione e ottenendo approvazioni normative per portare carne coltivata direttamente nei piatti degli americani.

La situazione italiana

Se negli USA la carne sintetica ha il vento (più o meno, o a tratti) in poppa, in Italia il discorso è completamente diverso. A fine 2023, il governo ha approvato una legge che vieta la produzione e la commercializzazione di carne coltivata, rendendo il nostro Paese il primo al mondo a introdurre un divieto esplicito su tale novità (le alternative plant-based, invece, sono reperibili ma non possono essere chiamate “carne” nemmeno se associate ad altri termini come “finta” o “vegetale”). Una scelta che ha diviso l’opinione pubblica: da un lato la tutela delle tradizioni agroalimentari italiane, dall’altro il timore di rimanere esclusi da una rivoluzione tecnologica globale.

Il DDL italiano in merito è il 172 del 1 dicembre 2023 e riguarda “disposizioni in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati nonché di divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali”. Prevede multe non solo per chi, in Italia, produce, ma anche per chi commercializza tali prodotti, anche importandoli.

L’altra faccia della medaglia, in Italia

Eppure, anche in Italia il mercato delle alternative alla carne è tutt’altro che marginale. Nonostante il divieto sulla carne coltivata, i prodotti plant-based stanno vivendo un momento d’oro. Nel 2023, il comparto delle alternative vegetali alla carne ha raggiunto i 199 milioni di euro, in crescita del 24% rispetto al biennio precedente. Si stima che il mercato italiano possa valere 230 milioni entro la fine del 2025, con un tasso di crescita medio annuo superiore all’8%. A trainare il settore sono burger vegetali, polpette, piatti pronti a base di proteine vegetali, venduti principalmente nei supermercati.

Torniamo alla carne coltivata ed al suo modello economico

La vera sfida per gli americani sarà abbattere i costi e rendere la carne sintetica più competitiva. Finché una bistecca coltivata costerà 10 volte di più di una convenzionale, infatti, tale prodotto non potrà entrare a far parte della routine alimentare del grande pubblico. Ma quando tecnologia e scala industriale permetteranno alle aziende di applicare prezzi accessibili, è probabile che vedremo il settore diventare più dinamico di quanto lo sia oggi.

In RetailWatch seguiremo l’argomento con grande interesse, per monitorare gli sviluppi tecnologici, normativi e culturali ad esso collegati.

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