La famiglia Belier. Ovvero talvolta il cinema no.

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La famiglia Belier. Ovvero talvolta il cinema no.

"Si è voluto fare a torto della borghesia una classe. La borghesia non è che la parte soddisfatta del popolo. Il borghese è l’uomo che ormai ha il tempo di mettersi a sedere.” (Victor Hugo)
 
 
“Un film che vi farà stare bene”. È questa la Tagline di La famiglia Bélier (2014) di Éric Lartigau. Una pellicola che, al contrario, ha suscitato molte proteste in tutto il mondo (accanitissimi Guardian e Premiere), ma soprattutto in Francia, rispetto al modo in cui è stato restituita la realtà dei non-udenti. Leggendo gli articoli che seguono questo filone, appare ormai chiaro che non si possano realizzare film che tematizzino qualsivoglia handicap, senza venire tacciati di buonismo, superficialità, approssimazione, per poi svegliarsi la mattina e rendersi conto di aver realizzato un vero e proprio manifesto all’odio razziale. Ma l’handicap è dire tanto: pare impossibile girare film su qualsiasi cosa. I gay non amano i film LGBT perché “sembra che siamo tutti checche”, gli animalisti detestano i cartoni animati della Disney e qualsiasi film in cui compaia un cane, perché “chissà-come-lo-hanno-obbligato-a-rotolarsi-in-quel-modo”, quelli di destra odiano Moretti perché è di sinistra, la sinistra lo snobba perché “fa il gioco della destra”, film sul mondo arabo non se ne possono fare a prescindere per paura che si facciano esplodere sotto casa del regista, personaggi preti meglio di no- se no i cattolici non vanno al cinema, se il protagonista tiene una sigaretta in mano scoppia una crisi diplomatica con le associazioni contro il fumo, la carne non si può mangiare per non urtare la sensibilità dei vegani, cappa e spada inneggia alla violenza, scrivi una battuta sugli ebrei e sei automaticamente un neo-nazista filo palestinese antisemita negazionista.
 
Pare che ogni categoria di persone tenda a prendersi fin troppo sul serio. Il Cinema no. Il Cinema, specialmente in Italia, è succube dei più lugubri luoghi comuni, vittima del volere popolare che è popolo senza preferenze, salvo quelle televisive. In televisione va bene il sesso, il turpiloquio, la violenza- va bene tutto, senza fasce orarie. Il Cinema no, il Cinema è roccaforte intellettuale benpensante dalle poche sfaccettature e i mille eccessi, bersaglio continuo di un pubblico sempre più composto da artisti (come diceva quel Sean Penn in This must be the place: “Ci hai fatto caso che ormai più nessuno lavora e che tutti invece fanno qualcosa di artistico?”) e sempre meno spettatori. E gli artisti intanto? Fanno il velo, come in certe giocate di calcio, dove si illude di toccare la palla, mentre quella invece sfila dritta al compagno di squadra. Fingono di prendersela, di indignarsi e passano il testimone ai blogger, all’esercito di improvvisati che ha preso il timone della cultura, accondiscendenti, muti, perché tanto si sa- in questo settore è tutto così.
Come si insegna nelle accademie di teatro: “Recitare è un gioco. Un gioco serissimo.”, così anche lo spettatore (ma anche tanti registi) deve arrendersi alla triste realtà che un film, talvolta, è soltanto un film. Non sempre ha lo scopo di farti uscire dalla sala, tornare a casa, abbandonare lavoro e famiglia e andare a cercare te stesso in Oriente. Talvolta vuole farti passare solo un bel sabato sera e niente più. Essere troppo severi con il Cinema è essere troppo severi con sé stessi, che ne siamo specchio.
 
La famiglia Bélier ha tre caratteristiche fondamentali che depongono a suo favore: un espediente narrativo non forzato, una recitazione dai toni vivaci, ma mai farseschi e una trama brillante e originale.
Paula Bèlier ha sedici anni e più vite. Una Paula munge le mucche, un’altra traduce per i genitori sordi, un’altra ancora cerca di recuperare spagnolo e dopo tutte, in fondo in fondo, ce ne sta un’ultima, silenziosa e timida, che è solo una ragazza di sedici anni. In costante lotta tra la vita della fattoria e quella di teenager, Paula è come tutte le altre, ma a differenza loro ha un dono- il canto, ovviamente incomprensibile ai suoi.
La sordità non ha quindi nulla di forzato all’interno di questa trama dai caratteri semplici e modesti, di cui la regia è a completo servizio (al suo apice nella scena del duetto). Il linguaggio dei segni, operato da Paula e dalla sua famiglia per comunicare, richiede pesanti sottolineature caricaturali con le espressioni del viso: questo in principio può risultare ridicolo, man mano poi invece ci riporta dolcemente a un tipo di interpretazione lontano, dalle parti di Totò, ma anche di Troisi, in cui la smorfia si faceva base portante dell’effetto comico.
 
Un film a metà tra Little Miss Sunshine e Billy Elliott (che poco ha da invidiare a entrambi), che ci ricorda che la vita non va presa troppo sul serio, altrimenti si rischia di “steccare” qualche nota, come ci capitava in adolescenza, quando il timbro è ancora labile è insicuro. La famiglia Bèlier fa ridere, piangere, emozionare e guarda dritto in faccia anche al pubblico più scettico e burbero, facendolo – è vero infondo- stare bene. A meno che non si voglia essere sordi alla sua dolcezza. Ma in questo caso l’handicap è il vostro.
 
Gli abbinamenti food
di Luigi Rubinelli
 
Vini
Beh per star bene provate questo Lambrusco di Sorbara Chairo della Falconaia (un pò difficile da trovare, ma si può fare e quindi starete ancor meglio dopo averlo aperto). È delle Cantine Cooperative Riunite di Campegine (Re), gente abituata ai volume ma che quando ci si mette non scherzo. Un lambrusco davvero sorprendente
 
Formaggi
Sempre per star bene un bel gorgonzola dop, misto fra classico e dolce, con un gusto davvero tipico e dal costo sopportabile, la crosta è rossiccia.
 
Cioccolato
Stiamo sul classico: Lindt excellence 70%, se volete fate una toccata con quello al sale e poi starete bene sul serio.
 

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