Il caffé è parte del quotidiano di tutti, italiani e non. Approfondiamo cosa sta succedendo al mercato del caffé e perché il pericolo è da ricercare nell’offerta e non nella domanda.
Ci siamo abituati a collegare al caffé, nel tempo, grandi storie di successo. In Italia conosciamo i casi di Lavazza, Kimbo e Illy (tanto per citarne alcuni) ma, a questi, possiamo anche associare quelli legati a format di caffetterie molto famosi e d’oltremare come Starbucks (approdato poi anche da noi), Costa Coffee, Caffé Nero etc.
Il caffé è, dunque, non solo alla base di modelli di business che muovono miliardi di euro (e di dollari) ma è forse soprattutto una componente culturale italiana e non solo.
Come mai questo perno dell’economia e del costume, è sotto attacco?
Partiamo col dire che le due varietà principali di caffé commerciale in uso ad oggi sono la Robusta e l’Arabica e che hanno le seguenti caratteristiche:
Robusta. Grandemente utilizzata per i caffé istantanei, dal gusto forte e amaro, conta su livelli più alti di caffeina e generalmente tollera meglio gli sbalzi termici. I raccolti di robusta tendono poi ad essere più abbondanti.
Arabica. Riguarda circa il 60% della produzione di caffé mondiale. Dal gusto più dolce e delicato costa circa il doppio rispetto alla Robusta. È poi decisamente meno resistente ai cambiamenti climatici, ai parassiti ed alle malattie.
La domanda di caffé è in perfetta salute e, anzi, il consumo di questo prodotto è previsto raddoppi a livello mondiale entro il 2050, se i trend attuali si mantengono inalterati. Per avere un’idea del fenomeno, ciò significa che se oggi vengono consumate giornalmente circa 3 miliardi di tazze di caffé al giorno, in un quarto di secolo, indicativamente, tale numero salirà a 6 miliardi.
Nel mondo si consumano 3 miliardi di tazze di caffé al giorno, un numero che si pensa raddoppierà entro il 2050
Per lo stesso anno, però (2050), per effetto del cambiamento climatico, l’aumento delle temperature potrebbe ridurre considerevolmente la superficie di terra idonea per la coltivazione del caffé. Si parla di un decremento che, nel peggiore dei casi, sarà pari al -50%.
Possiamo, quindi, desumere che il caffé in futuro sarà sempre più costoso e, soprattutto, amaro.
Cosa significa questo per il retail?
Mentre per i business che vivono solo di caffé, come Starbucks appunto, il cambio nel gusto del prodotto (se negativo) può rappresentare una minaccia all’intero modello di business, nel caso del retail si tratta di monitorare gli sviluppi per verificare, nel tempo, le azioni da mettere in campo.
Sicuramente, in un mondo dove magari il gusto del caffé tenderà a peggiorare, è opportuno assicurarsi di ricercare ed inserire in assortimento prodotti che abbiano un sapore gradevole e che possano, dunque, fidelizzare la clientela, anche facendo accordi con i fornitori che blindino alcuni requisiti qualitativi. È poi opportuno controllare che tale livello di qualità non subisca variazioni rilevanti nel tempo.
Ho personalmente assaggiato caffé spettacolari in Sud America, ad esempio, che non ho ritrovato, come gusto, all’interno degli assortimento delle principali catene retail.
C’è anche da dire che, per alleviare il problema dell’amarezza del caffé, negli ultimi anni la bevanda è stata aromatizzata in tutti i modi, aggiungendo gusto e dolcificanti che consentono di ampliare le referenze disponibili e, allo stesso tempo, di migliorare l’impatto per il palato.
Chiedendo all’Intelligenza Artificiale il da farsi, mi viene risposto che è in fase di sviluppo la produzione di caffé sintetico. Chissà che questa innovazione non andrà a risolvere definitivamente, dunque, il problema sopra enunciato.
In attesa di ciò, però, è bene correre ai riparti, assicurandosi di garantire al consumatore finale la massima qualità possibile e disponibile.
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