Linklater-Boyhood: innovazione nel cinema

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Linklater-Boyhood: innovazione nel cinema

Novembre 2014. Raramente capita di incontrare opere che uniscano una spinta innovativa a sensibilità e semplicità. Questa pellicola (nominandola “film” la si accomunerebbe a altri prodotti che ne ridurrebbero l’efficacia e l’intento), è la diretta testimonianza. Boyhood porta Richard Linklater a confrontarsi con Francois Truffaut a Terrence Malick.

“The Twelve Year Project”, nome provvisorio, inizia nel 2002 e si conclude nel 2013. Nel 1995, Linklater fa la conoscenza di un certo Ethan Hawke, che allora ha 25 anni e ha già sulle spalle un’interpretazione eccezionale sul set di “Dead Poet’s Society” di Peter Weir. In quell’anno girano insieme “Before Sunrise”, il primo capitolo di una trilogia che proseguirà con “Before Sunset”, 2004, e “Before Midnight”, 2013. Il regista texano ha già cominciato a seguire la crescita di questa sua scoperta.

Questa tendenza “truffautiana” a fare di un personaggio una crescita temporalmente fedele Linklater la vuole mettere in pratica in una pellicola unica. Un’opera semplice che racconti i problemi e le difficoltà nella crescita di un ragazzo del nuovo millennio, ma anche degli ostacoli dell’essere genitori giovani, esseri umani fallaci e irresponsabili di fronte ai grandi compiti che ci pone la vita. Per fare ciò, Linklater, delimita con molta attenzione la fase critica nello sviluppo di un individuo, dalla tarda infanzia (otto) alla maggiore età (venti anni) e lo fa mantenendo perennemente non solo lo stesso cast, ma anche la medesima troupe a conservazione particolareggiata della propria cifra stilistica.

Ed è qui che si rivela alter-ego di un altro grande regista, anch’egli texano: Malick. Entrambi propensi a tempi disumani per la realizzazione dei loro lavori, denotano un grande studio e la necessità di un’approfondito sguardo e comprensione della materia narrata.
Tuttavia è nei contenuti che li ritroviamo esatti opposti. Prendendo “The tree of life”, 2011 (la cui lavorazione aveva avuto inizio nel tardo 2005), appare subito chiara la volontà di Malick di realizzare un’opera filosofica, che parta dai massimi sistemi (il rapporto tra essere umano e universo attraverso il complesso d’Edipo) per raccontare e comprendere dinamiche tragiche, ma essenziali dei personaggi.
Linklater fa l’opposto, seppure in simili dilatati tempi di lavorazione: canta l’uomo qualunque con contagiosa curiosità per descrivere il nostro tempo, la sua vita unica e irripetibile, colma di piccolo, grandi, umani dolori, di piccolo, grandi, umane gioie.
Mason (Ellar Coltrane), il protagonista, cresce con la madre (Patricia Arquette) e la sorella in assenza della figura paterna, Hawke, che fa capolino con irritante egoismo e invadenza quando gli torna più comodo. Anno dopo anno passa attraverso diversi quadri familiari, risposandosi la madre altre due volte dapprima con un attempato alcolizzato, più tardi con un marine veterano, già guardia giurata. Tutti giocano il ruolo del padre, che Mason vede pur raramente in ammirazione di questa figura dallo spirito libero e dal fascino artistoide. Ciò non fa altro che confondere il ragazzo, che osserva la propria vita venire contaminata da troppi fattori esterni, condizionandone le scelte.

Insomma, Mason conduce la vita media dei giovani del terzo millennio, né più né meno, ma tale sintesi non può mai risultare noiosa o ridondante, poiché è vita semplice e sensibilità di tanti.
Le fatiche di Linklater vengono gratificate alla 64° edizione del Festival di Berlino, dove vince l’Orso d’Argento come miglior regista.

Boyhood è un ritratto generazionale indispensabile a coloro che vogliono approfondire i pensieri e le ragioni di quelli che Michele Serra (a torto o ragione) definirebbe “gli Sdraiati”. È un quadro onesto e senza pretese e quindi vero, da qualsiasi punto lo si guardi. Merita un posto nell’Olimpo.

TEMPERATURA: La recitazione è, ovviamente, discontinua (parliamo ovviamente dei protagonisti giovani). Questi si limitano a interpretare sé stessi, senza enfasi e senza drammi. Questo conferisce alla pellicola, che è priva di radicali sbalzi narrativi, un tono tenue, ma che possiede il sapore della verità.

VELOCITA’: 166 minuti è una durata priva di “rami secchi” per descrivere le vite che ruotano intorno al giovane Mason per dodici anni. Gli scarti temporali sono ben definiti, ma non pesano nel processo di analisi dello spettatore che è in grado di mantenere compatta la visione di insieme ed è privato della possibilità di perdere la bussola temporale.

QUALITA’: La qualità è, a costo di ripetersi, molto alta. L’innovazione ha in questo un ruolo fondamentale, presentandoci qualcosa di assolutamente inedito e originale che scarta ogni definizione troppo marcata e classifiche specifiche.

DA VEDERE CON TUTTI: E’ il tratto distintivo del film. Il mutamento, la crescita. È un qualcosa che volenti o nolenti ci riguarda tutti e che quindi non può che interessare tutti.

Abbinamenti food di Luigi Rubinelli

Proviamo a cercare qualcosa di eccezionale, visto il timbre di questo film, a costo di fare pubblicità gratuita. Siamo in Piemonte

Vino: Barolo 2008 di Bartolo Mascarello, Barolo. Da gustare davvero con calma, se vi piace il vero Barolo, senza concentrazioni dannose al gusto e legno che va e viene. Il prezzo non è secondario, ma secondo noi li vale tutti. Prost.

Formaggio: Murianengo: Formaggio con tecnologia simile al Castelmagno, in una zona di produzione che arriva fino al Moncenisio e il suoi alpeggi. Viene stagionato per cinque mesi, ma non mi preoccuparei tanto di due mesi in più.

Cioccolato: Domori, tavoletta Guasare, Criollo 70%, spunta il miele e la frutta secca.

Non volevate prodotti unici come il film recensito da Giulio?

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